Il 21.06.2007 ero a Tortona, presso il Circolo di Lettura, invitato come relatore ad un convegno organizzato dal Lions Club:
“Capaci di volere il male – Le capacità penali tra diritto e psicopatologia“.
Partners: Magellano scs, SLOP, Ordine Avvocati e Procuratori di Tortona, Camera Penale della Provincia di Alessandria, Il Leone e la Rosa.
Ho svolto la mia relazione a braccio e sorvolando qualche passaggio per rientrare nei tempi, invariabilmente tiranni. Non dispongo dunque del testo del mio intervento, ma pubblico di seguito la traccia che mi ero scritta per questa occasione.
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Il convegno a cui oggi partecipiamo, è incentrato sulla nota sentenza 9163/2005 delle Sezioni Unite della Cassazione, che l’avv. Tava [nota: il relatore precedente] ci ha appena presentato. Vorrei spendere adesso qualche parola in favore di essa, ma anche condividere una preoccupazione. Di sicuro, un grande merito essa lo possiede ed è quello di tentare di riconsegnare nelle mani del magistrato l’onere della decisione, anche per quanto concerne le incertezze di natura psicologico-giuridica.
Il mio ragionamento muove da una prima contestazione di tipo logico. Talvolta la Corte formula quesiti psichiatrici che hanno la seguente struttura: “dica il perito se l’imputato, al momento di compiere il fatto, fosse capace di intendere e di volere”. Si badi che simili quesiti vengono spesso formulati già in una fase iniziale del processo, quando ancora la giustizia pubblica non ha affatto accertato quale sia il fatto e se quell’imputato lo abbia davvero commesso. Il quesito peritale assume dunque spesso una connotazione paradossale ed intrinsecamente irrisolvibile per il perito stesso, il quale non può sapere con certezza a quale realtà egli debba fare riferimento.
Esiste un limite umano universale, al quale anche un perito non si sottrae, per cui è impossibile formulare mentalmente un ragionamento, senza dargli un qualche fondamento narrativo ed immaginativo su cui basarlo. Il perito non può mica pensare in termini puramente astratti, senza proiettare nulla sullo schermo della propria mente; per sviluppare il proprio ragionamento clinico è costretto ad ancorarsi ad una ipotesi concreta: allora, di solito e purtroppo, non fa altro che partire dal preconcetto che i fatti siano avvenuti come dal capo d’imputazione. Non è una bella premessa, per chi ha a cuore i principi del giusto processo, eppure sono certo che spesso accada proprio questo. Una sorta di presunzione di colpevolezza, un fattoide di cui noi psicologi in realtà faremmo volentieri a meno, ma al quale veniamo costretti dal paradosso implicito nel quesito che il magistrato ci pone.
I risultati potete immaginarli e sono spesso disastrosi sul piano logico: è facile ad esempio che prevalga un ragionamento di tipo circolare, ovvero prima noi consulenti formuliamo una diagnosi di insanità mentale, alla luce della gravità del reato denunciato e presunto (perché per commettere certi delitti non si può non essere folli), poi questa valutazione a sua volta può diventare elemento di indizio o di prova nel processo ed influenzare il convincimento della giuria sulla colpevolezza dell’imputato: se quel giorno quella persona ha avuto un raptus, come afferma lo psichiatra, allora è colpevole. Si rischia cioè la cosiddetta “profezia che si autoavvera”.
Userò come primo esempio un noto processo per presunto figlicidio, di grande clamore mediatico, celebrato recentemente in corte di appello. La difesa della madre imputata, che ricorreva contro la condanna in primo grado, scoprì all’apertura dei lavori che il primo atto disposto dalla corte di appello sarebbe stata una perizia sulla infermità mentale dell’imputata. Si badi che in questo caso si trattava di un accertamento richiesto dalla pubblica accusa, e non da parte della difesa, come spesso avviene per tutelarsi da una probabile condanna. Nel quesito si chiedeva anche ai periti che “ricostruiscano criminogenesi e criminodinamica del reato addebitato all’imputata ed esaminino il suo funzionamento mentale, in riferimento sia al contesto in cui il reato è avvenuto, sia alla possibilità o meno di comprendere il significato dell’atto commesso e di agire in conformità a tale valutazione” (non mi sorpresi quando l’avvocato della difesa, sconsolato, affermò: “credo che la sentenza sia già scritta”).
I periti si trovarono in quel caso di fronte al paradosso di dover studiare il funzionamento mentale della donna e decidere se fosse o non fosse inferma di mente nel momento in cui suo figlio veniva orrendamente trucidato, ma senza poter sapere se lo avesse accoltellato lei stessa in un raptus, oppure se fosse stato un estraneo introdottosi in casa di nascosto. Vi sembra un dettaglio da poco? Perché se non fosse stata la madre a trucidarlo, qualcuno mi spiega che senso avesse indagare sulla sua salute mentale? E’ ovvio che in queste situazioni, il messaggio implicito che si dà al perito, neanche troppo fra le righe, è quello di presumere pure che i fatti siano avvenuti, esattamente come dai capi di imputazione.
Non sto mica puntando il dito contro un problema da poco, me ne rendo conto, sto contestando il fondamento logico stesso di buona parte delle perizie che vengono disposte sull’imputabilità. E non è una mia trovata originale, questa obiezione è stata sollevata già infinite volte, eppure il paradosso sopravvive immutato nel processo penale, da sempre. Voi giuristi praticate solitamente l’arte della coerenza procedurale con estrema finezza, anche dettagli microscopici vengono passati al vaglio giurisprudenziale affinché nulla sia casuale o fuori posto nel processo, ma non questo. Perchè? Mi sembra il classico esempio della trave invisibile, nell’occhio di chi sa distinguere perfino le pagliuzze più fini.
In realtà, per spiegarmi l’immortalità di questo paradosso, io una idea me la sono fatta ed è che esso resti funzionale ad un bisogno inconfessabile dei magistrati e del processo stesso. Consente il mascheramento della indecidibilità di molte cause: perché, ammettiamolo, non rientra nella vicenda umana collettiva la possibilità di accertare ogni fatto delittuoso. Per il giudice, in alcune situazioni può essere dunque irresistibile la tentazione di adoperare la perizia psichiatrica come elemento di accertamento dei fatti.
E’ sbagliatissimo, ne siamo probabilmente tutti consapevoli, la scienza della psiche è la scienza della soggettività per definizione, come può essa fornire degli elementi fattuali oggettivi, che neanche le indagini e il dibattimento riescono a produrre? Se vi fosse tra voi qualcuno che coltivasse l’illusione che le scienze della psiche siano in grado di accertare la verità del presente o addirittura del passato, devo purtroppo deluderlo. A meno che lo psichiatra non si improvvisi anche detective, come spesso avviene, ma non è per questa mansione che dovrebbe essere consultato.
Il processo può avere una fame di fatti oggettivi, tale da far slittare in secondo piano il rispetto della logica. Non pensiate che questa sia una critica rivolta ai giudici, non lo è affatto, trovo perfettamente comprensibile che essi perseguano il fine proprio, che è quello di raccogliere elementi di giudizio. Il giudice è quella persona che viene posta dalla società nella sgradevole posizione di chi deve disporre, pur spesso senza avere sufficienti elementi per farlo: ad una sentenza ci si deve arrivare comunque. E nulla è più ansiogeno per la persona, di doversi prendere simili responsabilità, senza avere certezze o elementi, rischiando inoltre la gogna massmediatica.
Domandare è lecito, rispondere però in questi casi non è cortesia. La mia contestazione è rivolta infatti ai consulenti che accettano il quesito paradossale: qualunque cosa io possa rispondere ad una domanda paradossale, sarà sempre assurda. L’unica risposta possibile, per deontologia e professionalità, sarebbe l’astensione, ovvero sarebbe nostro compito rappresentare a chi ci pone la domanda che essa è irrisolvibile, o quantomeno che essa è prematura ed andrebbe riformulata solo al termine del processo, sui fatti altrove accertati.
Questo avviene però solo nell’utopia, quando mai nella realtà si è visto un perito rimbalzare la consulenza proposta?
L’esempio del famoso processo che prima citavo, resta paradigmatico anche alla luce di un altro fatto interessante, sopraggiunto quando la madre imputata rifiutò di sottoporsi all’esame psicologico. Non era dunque possibile per i consulenti esaminarla a colloquio o tramite test psicologici. Ritengo che a quel punto il buon senso suggerisse loro la rinuncia alla perizia, o almeno un forte ridimensionamento del quesito, invece essa venne realizzata ugualmente e fu basata sull’analisi di elementi tratti da varie fonti, per lo più indirette ed improprie, ad esempio analizzando le comparizioni televisive e giornalistiche della madre. Un esercizio acrobatico, condotto pure con grande acume da parte di professionisti stimati e preparatissimi, ma sul cui fondamento scientifico e giuridico continuo a coltivare una profonda perplessità. Essi giunsero alla conclusione che questa madre, verosimilmente, cadde in preda di un disturbo chiamato “stato crepuscolare orientato“, un vero virtuosismo psicodiagnostico che ha affascinato la discussione tra gli esperti e tra i curiosi, ma che in realtà ha solo aggiunto un altro fattoide ai troppi già presenti nel processo.
Mi sembra la prova che la pressione esercitata dalla situazione e da parte della corte stessa, può essere talvolta insostenibile anche per i più forti tra noi, ci pieghiamo alle richieste processuali forzando i limiti della nostra scienza. Poi magari scriviamo due righe in fondo alla perizia per dichiarare la sua scarsa attendibilità intrinseca, ma quelle due righe non se le fila mai nessuno, mentre le azzardate conclusioni diagnostiche entrano nel processo come un macigno, una verità presunta perfino superiore poiché “scientifica”.
E soprattutto, se i consulenti avessero rifiutato l’incarico, siamo certi che ciò avrebbe aiutato la corte a riflettere meglio sulla logica paradossale che affligge il quesito? O non sarebbero stati invece semplicemente rimpiazzati da altri consulenti, magari ancor meno scrupolosi?
Si tratta di un problema più grave e frequente di quanto non si possa immaginare. Un’altro esempio giudiziario affine, anch’esso alla ribalta delle cronache attuali, è quello legato alle denunce per abuso sessuale su minori ed all’esplosione dei casi che si dimostrano poi falsi, ad esempio nelle separazioni coniugali conflittuali, oppure in casi di presunto abuso sessuale collettivo (i c.d. “asili degli orchi”). E’ prassi diffusa che il magistrato, spesso il PM o il GIP, disponga CTU o incidente probatorio, chiedendo al consulente psicologo se un bambino mostri segni clinici riconducibili ad abuso sessuale.
Purtroppo la scienza psicologica e neuropsichiatrica non ha mai potuto identificare dei segni patognomonici, che indichino cioè attendibilmente e incontrovertibilmente un trauma da abuso. Il test di laboratorio psicologico per scoprire l’abuso, non esiste. Ci sono tanti indicatori che fungono da indizio, ma sul piano delle ipotesi tutto è possibile ed ogni segno può parlare di un abuso, così come lo stesso segno può essere dovuto ugualmente a cause alternative. Persino quando il bambino dichiara esplicitamente di aver subito abusi e sembra in grado di descriverli, le scienze forensi ci mettono in guardia e hanno dimostrato che in una certa fetta di casi si tratta di una costruzione infondata, che l’esperto di salute mentale non è mai in grado di distinguere con certezza dai veri ricordi di abuso.
Insomma, per lo psicologo quella domanda è indecidibile, per questa ragione i protocolli peritali, come ad esempio le linee guida dell’ormai famosa Carta di Noto [nota: cfr. comma 9], vieterebbero al consulente di accettare simili quesiti. Il consulente professionale semplicemente si astiene.
Anche questa, è purtroppo una rarità nei nostri processi, e comunque quando accade, il magistrato purtroppo non fa altro che chiamare il prossimo consulente in lista, finché non ne trova uno meno scrupoloso e professionale, che sappia fingere di possedere scienza sufficiente a rispondere. L’effetto è devastante, senza rendersene conto i magistrati che non sappiano tollerare un rifiuto del consulente, operano talvolta una vera e propria selezione dell’esperto meno attendibile, un darwinismo alla rovescia che fa sopravvivere negli albi del tribunale proprio lo psicologo meno coscenzioso, meno deontologico e meno consapevole dei propri limiti.
Questo fenomeno ha assunto contorni perfino imbarazzanti, in alcune sezioni della Procura specializzate nell’indagine sull’abuso ed in alcuni Tribunali per i minorenni, che si sono circondati di periti tanto compiacenti da riconoscere gli abusi con regolarità e onnipotente assenza di dubbio. Non ci si stupisca dunque se poi in sede processuale le conclusioni di quelle perizie si sciolgono spesso come neve al sole, troppo facilmente invalidate dai consulenti della difesa. Semplicemente non dovevano essere fatte e gli sforzi della corte dovevano piuttosto orientarsi sulla raccolta di un supplemento di dati oggettivi di indagine.
Il mio intervento odierno mira in definitiva a far riflettere su quali siano i limiti della perizia psicologica o psichiatrica per il processo. L’esperto della psiche è portatore di riflessioni e notizie certamente utili, ma non di verità oggettuali, l’onere della decisione resti al peritus peritorum e venga esercitato secondo buon senso, evitando di nascondersi invece dietro a finte verità medico-scientifiche di presunto ordine superiore.
In questo ragionamento, la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Unite, n. 9163 del 2005, assume una grande rilevanza.
Non voglio soffermarmi però molto sugli aspetti clinici che la informano, ovvero sulla dottrina in materia psicopatologica da cui è ispirata. Sono contenuti che, a dire il vero, in gran parte non condivido affatto: oltre ad essere piuttosto confusi, sono ancora intrisi di una cultura psichiatrica dualista e organicista che ritengo andrebbe superata con molta più convinzione. Questa cultura dualista è stata quella dominante fino adesso e invero la stessa causa ultima del disastro psicogiuridico che tutti associamo alle diatribe sull’imputabilità. Il ragionamento peritale che veniva proposto, in estrema sintesi, era il seguente: ci sono le malattie organiche della psiche, che sono le psicosi o i disturbi psicorganici, e per queste si può essere ritenuti incapaci; ci sono poi i disturbi psicologici, i disturbi della personalità e queste non sono malattie dell’organo, quasi come fossero turbe dell’anima, chi ne è portatore deve espiare in carcere.
E’ almeno dalla metà degli anni ’70 che la scienza neuropsicologica ha superato definitivamente questa assurda dicotomia tra mente e cervello, come fossero due oggetti distinti che possono essere colpiti selettivamente, che possono ammalarsi l’uno indipendentemente dall’altro. Il cervello e la personalità sono la stessa cosa, solo vista da due angoli di osservazione diversi. Eppure, in questi 30 anni la psichiatria forense si è chiusa in un bozzolo e ha fatto finta di non sapere, rassicurando i giudici che il consulente fosse in grado di stabilire se e quando si fosse di fronte ad una vera infermità (ovvero una malattia organica del cervello), oppure di fronte ad una semplice deformazione individuale della psiche, dell’anima. Che falsità.
Noi consulenti abbiamo viziato i giudici con risposte preconfezionate, distinguendo chiaramente per loro tra persone “malate” e persone “cattive”, come se esistesse una linea di confine, un diverso passaporto. Per orientarsi, molti psichiatri forensi ancora si appellano ad “Asse I” ed “Asse II” del manuale DSM. E i giudici su questa finta sicurezza “scientifica” ci si sono adagiati, felici di potersi sgravare dell’onere di una decisione davvero difficile: il malato (e solo egli) evitava il carcere, perché vittima di una alterazione organica del proprio sistema nervoso centrale. Intanto, in questi decenni si sono accumulate però anche una gran messe di prove che il sistema nervoso centrale è ben alterato anche negli altri casi, ad esempio in quelli che vengono chiamati psicopatici, o disturbi antisociali di personalità, si sono osservate con le tecniche di neuroimaging delle alterazioni cerebrali che possono essere anche più massicce di quelle delle psicosi.
La Cassazione nel 2005 fa finalmente saltare il tappo a questa contraddizione e ci propone un criterio nuovo, secondo il quale (sempre in estrema sintesi) si considera che non sia tanto importante il tipo di diagnosi, cioè se disturbo “organico” o “psicologico”, quanto piuttosto che vale l’apprezzamento della gravità delle conseguenze di un disturbo sul funzionamento del soggetto. Insomma, se tu reo soffri di disturbo di personalità, ad esempio quello detto “borderline”, se esso è grave e ti spinge a comportamenti fortemente devianti, potrebbe esserti riconosciuta la non imputabilità.
Sembra un passettino avanti e, dal punto di vista processuale, la rivoluzione c’è. Perché prima la non imputabilità la decideva praticamente il consulente psichiatra, che sapeva quasi con certezza che l’imputato sarebbe finito in cella o meno in base al tipo di diagnosi formulata: riconosciuta la schizofrenia, il giudice difficilmente avrebbe potuto incarcerarlo, così come difficilmente avrebbe potuto scegliere di mandare in cura un soggetto anche gravemente deviante, ma non riconosciuto come psicotico. Adesso invece sappiamo che, indipendentemente dalla diagnosi che verrà posta, la questione dell’imputabilità resta aperta e l’unico che potrà davvero dirimerla sarà il magistrato, portatore di quel buon senso giudiziario che oggi torna ad esercitare in piena autonomia e responsabilità. Mentre il dato clinico torna ad essere semplice elemento utile al ragionamento giudiziario, senza vincolarlo a conclusioni predeterminate.
Questa è la direzione sperata, ovviamente. Quella che prevede che i magistrati e gli avvocati si formino adesso meglio sulla terminologia psichiatrica, acquisiscano strumenti di critica e soprattutto inizino a lavorare assieme al consulente, di concerto, entrando nel suo ragionamento per poi poterlo fare proprio e rinunciando a usare la perizia psichiatrica come se fosse un semplice esame oggettivo di laboratorio. Tutto ciò implica ovviamente anche una maggiore cura nella selezione del consulente e l’accettazione dei limiti della scienza psicologica, inutile chiedere risposte che non possiamo dare.
Purtroppo, temo che la realtà possa prendere anche tutt’altra direzione, ovvero che molti magistrati persistano nel voler attribuire valore oggettivo alla diagnosi e, alla luce della sentenza 9163/2005, assumano adesso che qualsiasi termine medico venga associato alle turbe della personalità dell’imputato, possa e debba far scattare in automatico il meccanismo della non imputabilità. Un esito pilatesco, a mio parere un pericolo attualmente concreto.
Resti dunque integralmente al giudice la responsabilità della decisione, anche e soprattutto quando gli elementi fattuali sono insufficienti; è la prerogativa del suo ruolo, indispensabile a dirimere le questioni della società per farla funzionare, nonostante l’incertezza e alla faccia di ogni chimera scientista nelle vicende umane.
L’assunzione di questo onere è anche orgoglio del magistrato, non un fatto osceno da nascondere sotto la pudica sottoveste rappresentata da consulenze psichiatriche spesso falsamente oggettive, in realtà paradossali.
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P.S.: ringrazio gli amici Davide Liccione e Giacomo Prati per l’invito a questa interessante giornata di riflessione tra giuristi ed esperti della mente.